Irma Conti: «Le violenze sono atti criminali, solo le denunce salvano ogni giorno dai femminicidi»
L’avvocatessa, paladina dei diritti delle donne, in un’intervista esclusiva a due mesi dal femminicidio che ha scosso Trani
È una di quelle donne per le quali l’8 marzo è un giorno come un altro poiché la sua azione nell’affermazione dei diritti delle donne è continua e potente: Irma Conti è un avvocato penalista cassazionista del foro di Roma e per l’impegno contro la violenza di genere è stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica a soli 41 anni.
Presidente dell’Associazione Donne Giuriste italiane, è molto attiva per il riconoscimento e la tutela delle pari opportunità in ogni ambito, anche quello forense, perché crede che “una buona politica di genere sia una buona politica economica e sociale”. Si batte per i diritti delle donne in un momento in cui le stesse “hanno tanti meriti ma non ancora adeguati riconoscimenti” e spesso le cronache giudiziarie la mostrano mentre è impegnata in processi su fatti di dura cronaca.
Tra corsi e docenze per l’università La Sapienza e la scuola forense e i suoi numerosi impegni professionali , Irma Conti è membro prestigioso del comitato scientifico della casa editrice SD&C di Trani ; e l’abbiamo incontrata in un ristorante romano, in una pausa dai suoi impegni in Cassazione, sempre disponibile quando si tratta di comunicare in modo importante come cercare di arginare una violenza di genere che continua a manifestarsi ancora in troppi modi.
Partiamo dal caso che ha scosso la Città meno di due mesi fa, benchè in punta di piedi vista la delicatezza della vicenda e elementi ancora da accertare: ma sappiamo che l’omicida- suicida era stato sottoposto a TSO ed era sotto cura psichiatrica. Cosa non è andato come sarebbe dovuto andare? La domanda è forse inadeguata, ma tanti a Trani se la sono posta: come Teresa si sarebbe potuta salvare?
Questi drammi sono subdoli perché non è un nemico che si annuncia colui che agisce violenza, ma sono persone che con la vittima hanno vissuto, condiviso la vita, talvolta i figli. Nei casi in cui si aggiunge anche la variabile psichiatrica diventa oltremodo imponderabile prevedere un esito infausto.
Sappiamo dalle cronache italiane che molte delle donne uccise avevano chiesto aiuto, denunciato. Eppure sono state lasciate sole, o quantomeno non protette come sarebbe stato opportuno. D’altro canto tanti operatori del 118 riferiscono che negli interventi per soccorrere donne picchiate dai propri compagni o mariti il più delle volte sono esse stesse a chiedere di tacere, di non riferire, benchè spronate a sporgere denuncia. E’ più la paura, la sfiducia o cosa?
Non sono assolutamente d’accordo. Apprendiamo ancora di notizie di femminicidi ma non sappiamo quante donne sono state salvate proprio grazie ed esclusivamente alla denuncia che hanno presentato. Basta pensare ai numeri elevatissimi delle denunce per dare proprio una lettura diametralmente opposta ed un messaggio corretto: l’unico modo per interrompere il circuito della violenza è presentare una denuncia. Solo in quel modo il criminale può essere fermato, diversamente, per nessuna ragione un violento cambierà. A ciò si deve aggiungere che la repressione delle forze dell’ordine, della magistratura e la funzione degli avvocati è spesso vitale. Ovviamente è normale che non fanno notizia le centinaia di vittime sottratte alla violenza, ma l’importante è che ciò contribuisce a salvare le vite delle donne e dei loro figli. Inoltre, consente anche il recupero degli uomini maltrattanti.
Spesso le peggiori nemiche delle donne sono proprio le donne, che spingono a sopportare per il bene della famiglia, specialmente qui al Sud. E’ evidente che sempre derivi tutto da un retaggio culturale pesante che portiamo con noi da troppo tempo, dalla storia del mondo, che del resto ancora si realizza in modo tragico nell’era attuale, tra le attuali condanne a morte in Iran, le infibulazioni in Africa etc. Lei ritiene ci siano possibilità, intervenendo magari sin dalle scuole elementari, per scardinare queste chiusure che condanniamo negli altri ma poi non ci rendiamo conto di realizzare noi stessi, nelle nostre comunità?
L’unico vero errore di valutazione non è locale o territoriale ma trovo sia quello relativo al fatto che chi commette violenza sulla donna o sui figli, è da collocare nell’ambito penale. Inquadrando correttamente il drammatico fenomeno come criminale, cioè autore di reati, sia la donna che la società tutta lo affronterà con la corretta modalità: ossia il coinvolgimento delle autorità a ciò deputate. Banalmente basta pensare che se vediamo due persone litigare in pubblica piazza, chiediamo l’intervento delle forze dell’ordine, spesso se sentiamo litigare una coppia, pensiamo all’arcaico brocardo “tra moglie e marito non mettere il dito”. Ma, se un uomo osa essere violento nei confronti di una donna, il paradigma di riferimento non è più quello moglie – marito, ma è criminale e vittima e come tale va affrontato.
Nell’opinione pubblica sono salite alla ribalta della cronaca attrici o celebrità che hanno denunciato molestie o violenze anche dopo trenta o quarant’anni: questo atteggiamento è un segnale che può contribuire a smuovere da troppa omertà o rischia di essere un’arma a doppio taglio, di banalizzare la violenza quando è denunciata come fosse una notizia legata al gossip?
La peculiarità dei casi e delle relazioni è tale per cui non sono in grado di valutare globalmente i casi. In considerazione della gravità dei crimini contro le donne, questi vanno accertati nel rigoroso rispetto dei diritti e delle garanzie, principi cardine del diritto penale e di uno Stato di diritto che dobbiamo preservare sempre. L’aspetto mediatico è importante per diffondere una cultura non più stereotipata e sostenere le donne nel delicato momento in cui devono presentare una denuncia, non c’è da temere rispetto alla certezza della violenza, la spinta deve essere verso l’allontanamento.
Spesso si assiste dall’esterno a situazioni che sembrano prefigurare violenze, annunciare morti: litigi che si sentono da un piano all’altro dei condomini, confidenze tra amiche, segnali evidenti. E poi se capita la tragedia, ci si finisce col sentire colpevoli di non aver aiutato nel modo giusto un’amica, una sorella, una vicina di casa, una collega di lavoro. Questo è un altro aspetto delicato ma che chiede aiuto quanto alle decisioni da prendere in questi casi. Cosa ci può dire in proposito?
La società non è responsabile, ma la società può e deve essere parte di questa rivoluzione contro la violenza e del perseguimento di zero reati contro le donne. Basta pensare che il reato di maltrattamenti in famiglia è stato previsto dal legislatore procedibile d’ufficio. Ciò vuol dire, ma non tutti sappiamo, che non serve la querela della donna, è sufficiente un intervento richiesto dai vicini o da chi sa per interrompere quelle urla dal piano di sopra o quell’occhio nero dietro l’occhiale da sole. Diffondiamo una giusta cultura, affrontiamo in modo sistemico il crimine, tale è e solo così si può risolvere con gli giusti strumenti e le garanzie, affinché non vi siano generalizzazioni o inadeguate e dannose soluzioni che spesso coinvolgono anche i figli.