“Donne Detenute, Madri Dalle Mani Legate”: un’analisi giuridica della condizione femminile dietro le sbarre dell’ADGI Lecce
“Donne Detenute, Madri Dalle Mani Legate: Le Relazioni Familiari nel Contesto Carcerario”: questo il titolo emblematico della conferenza organizzata il 30 novembre 2023 dalla Sezione di Lecce dell’Associazione Donne Giuriste Italia (ADGI). Un evento che ha sollevato questioni complesse e dibattute in merito al sistema giuridico e al ruolo delle donne nel contesto carcerario.
Ringraziamo l’Avv. Adriana Caforio, Presidente della sezione ADGI di Lecce, per aver condiviso con noi le preziose riflessioni emerse durante questo congresso, mettendo in luce la valenza giuridica fondamentale del tema affrontato.
L’evento “Donne detenute, madri dalle mani legate” nasce dall’esigenza di dare voce ad una delle problematiche più controverse degli ultimi anni. Parliamo di Donne detenute con i propri figli che diventano inevitabilmente madri dalle mani legate perché impossibilitate a determinare il futuro dei propri figli.
Queste donne devono scegliere tra portare con sé i propri figli in carcere o lasciarli crescere senza la madre nei primi anni di vita del bambino.
L’associazione Donne Giuriste Italia – Sezione di Lecce si propone quotidianamente di affrontare tematiche di carattere giuridico e sociale con l’unico obiettivo di tutelare i diritti umani, in linea con i dettami della Federazione Internazionale.
Il lavoro di ADGI è quello di sensibilizzare e di agire anche attraverso proposte legislative concrete – che abbiano come nucleo centrale i principi di eguaglianza sanciti dalla Costituzione e dalla Carta delle Nazioni Unite al fine di eliminare ogni forma di discriminazione e ancor di più quelle di genere.
Ed è proprio sul rispetto di questi dettami che si fonda la riflessione di oggi sulla questione della condizione delle detenute madri nell’ordinamento italiano.
Le donne detenute rappresentano una minoranza, solo il 5% dell’intera popolazione carceraria. Ciò ha comportato la creazione di un minor numero di norme ad hoc e dunque ad una serie di problematiche connesse alla standardizzazione del soggiorno carcerario.
L’articolo 3 della Costituzione impone una differenziazione, un bilanciamento fattuale della diversità sottesa al genere, anche all’interno di un penitenziario. Pensare ad un modello standard di detenzione per uomini e donne non solo è contrario a questo principio fondamentale ma rappresenta una lesione di una serie di principi a cui questo articolo fa da corollario.
Basti pensare al diritto all’affettività, alla genitorialità, alle cure specifiche per la donna, alla prima accoglienza in carcere e alle esigenze di carattere biologico – diverse da quelle degli uomini.
Proprio la Costituzione all’art. 27 sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Tale rieducazione, anche secondo le ultime sentenze della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non può prescindere da tutti questi diritti fondamentali.
La questione delle detenute madri ha aperto innumerevoli dibattiti tutt’ora irrisolti non solo in merito alla dimensione femminile ma anche e soprattutto per quella del minore recluso.
La legge infatti prevede che la madre detenuta possa scegliere di tenere con sé il bambino fino all’età di tre anni concedendole in tal caso un’ampia possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione, sia in fase processuale che in fase di esecuzione della pena.
Tuttavia, per coloro che, in virtù della gravità del reato o perché prive di dimora non possono accedere alle misure alternative alla detenzione, continuano a vivere nel penitenziario con i propri figli minori.
Il legislatore tramite la l. 62/2011 ha deciso di introdurre nuovi modelli detentivi a misura di bambino, quali le Case famiglia protette, affidate ai servizi sociali e agli enti locali ed i c.d. ICAM affidati all’amministrazione penitenziaria.
Gli ICAM, ossia gli Istituti a Custodia attenuata per detenute madri hanno avuto un ruolo fondamentale per l’effettiva tutela dei minori.
Si tratta di carceri colorate, senza sbarre nei quali i figli delle detenute possono rimanere fino all’età di sei anni. Il primo ICAM era stato costruito in via sperimentale nel 2007 a Milano. Altri Istituti sono stati recentemente aperti a Venezia e a Torino, ma il loro numero, così come quello degli asili nido all’interno delle sezioni femminili, è ancora altamente insufficiente.
Questa nuova scommessa rappresenta sicuramente una possibile alternativa per il futuro di questi bambini ma non smorza i dibattiti causati dall’inadeguatezza della disciplina codicistica.
La reclusione delle detenute con i propri figli conduce all’inevitabile paradosso di dover scegliere tra diritti fondamentali, tra pena della madre e libertà del minore.
Vittime indiscusse sono quindi i bambini che, oltre a subire la perdita degli affetti esterni, sono “prigionieri senza colpa” e costretti a vivere l’infanzia in condizioni diverse rispetto ai coetanei, perché privati di stimoli esterni. Questo ha ripercussioni importanti sul piano psicologico, sociale e relazionale.
Tale bilanciamento d’interessi delicato quanto complesso è tornato in auge nel febbraio 2021 con una proposta di legge presso la Commissione Giustizia della Camera dei deputati.
In particolare, tale iniziativa ha rimesso in discussione le disposizioni dell’art. 4 comma 2 della l. 62 del 2011 le quali, disciplinando il trattamento penitenziario delle donne detenute con i propri figli minori, hanno stabilito che la realizzazione delle «case – famiglia protette» debba avvenire senza oneri economici per lo Stato.
Difatti, a partire dal 1º gennaio 2014, attraverso il “piano straordinario penitenziario” si chiedeva al Ministero della giustizia di stipulare con gli enti locali delle convenzioni idonee a predisporre le «case famiglia protette» senza gravare sulla finanza pubblica.
Un programma che aveva sollevato già in quella occasione non pochi dubbi in ordine all’inattuabilità di un progetto così complesso in assenza di un investimento con fondi pubblici.
Dopo anni ci si è accorti che limitare le finanze per la creazione di strutture appositamente create per i soggetti detenuti vuol dire limitare contestualmente una rete di tutele e di diritti.
La nuova proposta di legge è dunque finalizzata a porre rimedio ai profili problematici rilevati in sede applicativa della succitata norma, discutendo altresì sulle innovazioni al Codice penale e di procedura penale.
Tra le principali novità vi è la soppressione degli incisi riguardanti le «esigenze cautelari di eccezionale rilevanza» degli artt. 275 e 285 bis c.p.p. ammettendo sempre l’esecuzione della pena negli appositi Istituti diversi dal carcere e non solo in ipotesi residuali.
Attualmente, infatti, l’art. 275 c.p.p. prevede che, nel caso sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, è consentita la detenzione all’interno del carcere, operando così un’evidente disparità di trattamento tra i bambini “dietro le sbarre” e quelli che hanno la fortuna di usufruire di misure alternative extra-murarie.
Difatti il rischio è proprio quello di sottrarre stimoli ai bambini nei primi anni di vita, costringendoli ad una realtà carceraria certamente tutt’altro che pedagogica ed educativa.
Le potenzialità di queste strutture alternative al carcere non si esauriscono nella dimensione alloggiativa poiché gli obiettivi sono quelli di sostenere la donna nel ricostruire un percorso di autonomia individuale. Si tratta in particolare di attivare una rete di opportunità formative e risorse individuali che facilitino la formazione e l’inserimento sociale e lavorativo così come previsto dall’art. 27 della nostra Costituzione.
Infatti, aiutando la madre nel recupero dei legami affettivi e familiari e nel rapporto con il figlio, non negando a quest’ultimo il diritto all’infanzia, si può salvaguardare e sperare in un reinserimento effettivo nella società.
L’obiettivo primario è quello di assicurare al minore un ambiente salubre, di fornirgli quantomeno la parvenza di un luogo confortevole, senza sbarre alle finestre o piccole celle sovraffollate da condividere con altre detenute.
Coerentemente con la ratio complessiva della riforma, risulta assolutamente irragionevole, quanto degradante per l’intero ordinamento giuridico e la società, ridurre ai minimi termini la tutela di un bambino solo perché figlio di un genitore detenuto, una discriminazione inconcepibile rispetto al trattamento riservato ad un bambino in libertà.
Questa proposta si pone quindi come una nuova speranza, un’apertura alla tutela del minore anche nei casi in cui ad essere detenute siano donne che non abbiano a disposizione luoghi di privata dimora e che si trovino costrette a portare con sé i bambini, con una conseguente violazione per questi dei loro diritti e della libertà personale. Dunque, donne detenute, “madri dalle mani legate”.
La spinta per un futuro migliore, in una società di diritto fondata sui diritti umani, potrà esserci solo con una progressiva valorizzazione della tutela dell’infanzia, con un reale bilanciamento d’interessi tra diritto alla genitorialità e “diritto di esser piccoli” dei minori, tenendo presente la celebre frase di Pitagora: “Educa i bambini e non sarà necessario poi punire gli uomini”.